ANNO 14 n° 120
Peperino&co.
Santa Maria in Gradi,
una memoria in pericolo
>>>>> di Andrea Bentivegna <<<<<
14/02/2015 - 02:01

di Andrea Bentivegna

VITERBO -''Uno dei più famosi capolavori del barocco'' questo si può dire, senza timore di esser smentiti, della fontana di Trevi a Roma eppure anche Viterbo, nel suo piccolo, possiede qualcosa di strettamente legato proprio alla fontana resa immortale da Fellini.

Nicola Salvi infatti, l’architetto di questa straordinaria scenografia urbana fotografata da milioni di turisti l’anno, progettò anche una delle più belle chiese della nostra città che purtroppo molti non hanno mai avuto modo di ammirare e di cui, talvolta, non si ricorda nemmeno l’esistenza.

Santa Maria in Gradi è un gioiello dimenticato contro cui la storia si è ripetutamente accanita ma che nonostante tutto, ancora oggi, con la sua mole, domina la città all’inizio della strada che sale verso i monti Cimini.

Il suo appellativo trae origine dalla ripida gradinata che, un tempo, si doveva percorrere per giungere alla chiesa, di questa non si conserva oggi che una piccola parte ma le antiche immagini ci mostrano come in passato si allungasse sostanzialmente sino alla strada.

L’illustre cardinal Raniero Capocci decise di erigere questa chiesa dopo un’apparizione nel sonno in una notte del 1215; Pare che avesse visto una ''donna venerabile'', che egli identificò con Maria, tracciare i confini del futuro convento bruciando dell’erba proprio in quel luogo.

Costruita inizialmente in forme gotiche, la prima fabbrica fu ammirata per più di quattro secoli salvandosi anche dalle devastazioni compiute dai Lanzichenecchi di ritorno dal ''sacco di Roma'' del 1527 ma i danni causati da un terremoto nei primi anni del XVIII secolo furono tali che nel 1736 si decise di intervenire ricostruendo, di fatto, la chiesa. Si salvano probabilmente solo i muri esterni ma il progetto, affidato appunto a Nicola Salvi, che riguardò la facciata e soprattutto lo spazio interno, fu radicale, e il risultato sbalorditivo: un’ampia navata principale coperta da una volta lunga ben 80 metri.

L’architettura della chiesa risplendeva allora grazie alla luce che attraversava le ampie finestre mostrando un imponente spazio razionalmente scandito dai costoloni della volta e le enormi colonne binate, il barocco di questo edificio testimonia una decisiva evoluzione, non più ''eccesso'' ma un ritrovato rigore.

Purtroppo però, nei secoli successivi, ancora una sorte avversa le sarebbe spettata; Nel 1874 infatti il complesso fu chiuso al culto e confiscato dal neonato Regno d’Italia per adibirlo a penitenziario, la splendida navata diventò in questo periodo nientemeno che la falegnameria del carcere dove i detenuti svolgevano i lavori, ma sarà la guerra e i bombardamenti del 1944 a infliggere il colpo più duro: le bombe alleate la colpirono distruggendo il tetto e parte delle volte interne.

Terminato il conflitto, inspiegabilmente, non si ritenne l’edificio meritevole di esser ricostruito ed anzi ci si affrettò a demolirne le parti pericolanti tanto che, di fatto, dagli anni ’50 la navata, ormai a cielo aperto, appariva come una suggestiva rovina di un passato già lontano.

Una svolta ci fu solo con l’inizio del nuovo millennio e l’acquisizione, provvidenziale, dell’edificio da parte dell’Università della Tuscia quando si pensò di utilizzare la chiesa come aula magna, il progetto, affidato all’architetto Stefania Cancellieri del MiBact, prevedeva la ricostruzione della copertura e della volta con l’utilizzo di materiali ''contemporanei'', il metallo nella fattispecie, per restituire, secondo quanto scrive la progettista, un’unità architettonica alla navata. Sfortunatamente i lavori, ormai a buon punto, si interrompono, prima dell’ultimazione, nel 2007 e non ci consentono un giudizio esaustivo sul loro esito, certo è che questa scelta di materiali, seppur motivata dalla precisa volontà di rendere leggibile l’intervento moderno, lascia, al momento, non poche perplessità: l’unità formale è ripristinata ma quella sostanziale appare ancor più compromessa, la speranza è che, tuttavia, nel momento in cui si provvederà alla ''tinteggiatura delle parti metalliche'', pure prevista dal progetto, si possa tornare a percepire la maestosità di questa splendida navata.

Una cosa tuttavia è certa, dopo quasi centocinquant’ anni, sarebbe giunto il momento per la città di riappropriarsi di un tale tesoro che per troppo tempo ci è stato precluso al punto che il degrado nel quale è sprofondato a causa degli eventi si è tramutato inevitabilmente in oblio per la memoria dei viterbesi stessi.





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